domenica 15 maggio 2011

Bisogno di comunità oltre l’indifferenza. Bisogno di socialità oltre l’individualismo.

Franca Pinto Minerva

 
1. Indifferenza e individualismo
L’indifferenza per l’altro, per la sua esistenza, per i suoi problemi, per le sue domande di aiuto, per quel che potremmo fare per alleviare insufficienze e dolori sembra essere, oggi, una delle caratteristiche distintive della contemporaneità. Insieme a essa distacco, disinteresse, distanza. Tutti modi e declinazioni particolari che descrivono, senza esaurirla, la fenomenologia dello stato di “anestesia morale” diffusosi pericolosamente e che mette fuori gioco i principi-valori, i modi di essere e di esistere improntati alla responsabilità e all’impegno, alla abnegazione e alla solidarietà.
Sempre più uomini e donne si trovano – paradossalmente – ad essere insieme-solitari testimoni e osservatori dei deprecabili spettacoli del disagio e del malessere, restando senza parole – perché niente si ha da dire – e muti – perché niente si vuol dire – di fronte alle rappresentazioni del degrado umano e materiale, intellettuale e morale, sociale e politico. L’indifferenza investe la totalità dei rapporti interpersonali, rendendo inerte anche il soggettivo interesse per il giudizio che gli altri possono esprimere su di noi in termini di approvazione e consenso, come in termini di biasimo e disapprovazione. Decade, così, la possibilità di essere del senso di colpa, l’altro è cancellato, la mancanza di solidarietà intraspecifica e interspecifica riconfigura – in negativo – le priorità dell’essere umano. Se di umanità in questo caso si può parlare.
Il cittadino della società, variamente definita “liquida”, del “rischio”, delle “passioni tristi”, dell’“ospite inquietante”, della “flessibilità” e della precarietà, cerca di ridurre sempre più l’impegno alla ristretta cerchia del Sé, escludendo, appunto, gli altri. O, meglio, gli altri sono ricercati, se mai, in quanto esperti da cui acquistare sapere su come sviluppare “più autostima, autoaffermazione, cura di sé, maggiore attenzione alla propria capacità interiore di trovare piacere e soddisfazione, nonché ‘minore’ dipendenza dagli altri e minore attenzione alle loro richieste di attenzione e cura”1. L’altro è funzione del Sé, l’altro è suo strumento e, in tal senso, ha valore solo nella misura in cui serve, è utile, è asservito al Sé. Valore labile, che presto si consuma, che è sempre intercambiabile, che si fonda sulla disposizione dell’altro in quanto utilizzabile. In una parola, un valore che prospetta la regressione dei valori umani dell’altro, così sottomesso ai desideri, ai capricci, agli scopi del Sé.
È ben evidente come l’indifferenza post-moderna sia strettamente correlata alla cultura del narcisismo esasperato e dell’individualismo. Una nuova forma di individualismo, però, ben diversa da quella che fondò la possibilità stessa dell’età Moderna. Allora, infatti, si trattava della rivendicazione dei diritti personali soggettivi che caratterizzarono lotte sociali, ideologiche, filosofiche dal Settecento fin nel cuore del Novecento. A quell’individualismo era, tuttavia, associata la consapevolezza del riconoscimento dei diritti degli altri in termini di doveri verso gli altri.
Emancipandosi dalle istanze Premoderne della felicità come bene da raggiungere nella vita ultraterrena, e del dovere come obbligo assoluto verso Dio, la Modernità ha affermato e diffuso l’idea della legittimità della personale ricerca della felicità, conciliabile con l’analoga aspirazione degli altri alla stessa felicità, per cui “cercare tale conciliazione sarà dovere di ciascuno”2. Un dovere, questo, che implica, per sua stessa definizione, il sacrificio di parte delle energie che avrebbero potuto placare le rivendicazioni dei propri personali immediati bisogni, a tutto vantaggio di una prospettiva in cui il bene dei propri contemporanei e delle generazioni future avrebbe prestato promessa di gratificazione delle frustrazioni presenti. In tal senso, si realizza un rinvio della felicità e del godimento immediato in vista di un superiore bene comune; si realizza l’“idea del sacrificio di sé a vantaggio degli altri […], del sacrificio di sé a vantaggio di una comunità da costruire […], del sacrificio del proprio sé attuale a vantaggio del proprio sé futuro”3.
La Modernità ha calibrato i propri strumenti, misurato le proprie azioni, sul metro della certezza del positivo e progressivo esito della storia, sostenuta, in ciò, dalla fiducia nelle utopie prefiguranti un possibile mondo diverso, in cui la felicità individuale e collettiva avrebbe avuto modo di realizzarsi, ad esempio, attraverso l’affermazione della libertà umana universale.
Tuttavia, le disillusioni dovute all’affermarsi di razionalità totalizzanti, l’impressionante semplicità e facilità, il fascino, anche, delle declinazioni più degenerate del pensiero e dell’agire umano – che trova concretizzazione nelle molteplici forme di genocidio e sterminio – l’incertezza nei confronti del futuro – una sistematica sottrazione di futuro a garanzia della “docilità” delle giovani generazioni – hanno comportato il graduale ripiegamento sul presente, sul proprio sé, l’egoistica reclusione nella gabbia del proprio personale benessere e del consumo-saccheggio immediato dei beni comuni, accentuando la dimensione esistenziale della precarietà.

2. Incertezza e ricerca di comunità

Una evidenza del passaggio all’età post della Modernità è, dunque, l’instabilità e la provvisorietà che caratterizzano una quotidianità di non luoghi e di tempi frammentati. “L’odierna incertezza è una possente forza individuilizzatrice. Divide anziché unire, e poiché non c’è alcun modo di sapere chi domani si sveglierà in quale categoria, l’idea di ‘interesse comune’ diventa sempre più nebulosa e perde qualsiasi valore concreto”4.
L’accentuarsi di un arido individualismo investe in pieno le relazioni affettive, più fragili, più effimere e più instabili. La solitudine e l’anonimato prodotto dalla moltitudine indifferenziata mina alla base i legami stabili di solidale cooperazione.
A fronte di questo scenario angosciante – in cui dominano autoreferenzialità, chiusura agli altri, edonismo consumistico, narcisismo collettivo e indifferenza verso gli altri, le persone, le cose, la natura intera nella complessa rete dei reciproci vincoli di interdipendenza – si assiste, quasi paradossalmente, al crescere e all’affermarsi di un ‘bisogno di comunità’. Tale bisogno, secondo Maffessoli, consente di individuare una dinamica di senso opposto, che promuove e realizza diffuse forme di socialità che si concretizzano nella costituzione di vere e proprie ‘tribù postmoderne’.
Spazi, tempi e relazioni in cui gli individui si trovano a “essere insieme” spinti da interessi comuni di natura culturale, sportiva, musicale, religiosa ecc. (si pensi alla riattivazione delle feste folkloriche e patronali, al diffondersi delle megafeste modello rave, ai biblici raduni sportivi, ai concerti musicali in piazza, al moltiplicarsi delle comunità virtuali). Tribù, tuttavia, che, coerentemente con il portato arcaicizzante implicito nella parola usata per identificarle, mirano a costituirsi in quanto insieme di identici rigorosamente escludenti gli estranei-stranieri.
Ora, è naturale che per i critici di tale modello organizzativo – che per il sociologo francese è caratterizzato da “mutua assistenza, condivisione di sentimenti, atmosfera affettiva” da solidarietà e bisogno di protezione, di “perdersi nell’altro” in forme di “fusione preindustriale”5 – si finisca col dar vita a comunità per lo più chiuse, a dominanza localistica, in cui il mutuo soccorso vale come regola di relazione solo quando risulti essere strumentale agli obiettivi dell’unico e identico sé, replicato nel noi della tribù. L’altro è visto, infatti, più che per quello che è o desidera, per quanto può riprodurre del sé e assicurare al sé con offerte di benefici, di riconoscimento, di sostegno e di restituzione di risorse. Dinamiche, queste, che possono efficacemente esser lette nei termini di ricerca di coesione e di sicurezza, non troppo diverse da quelle che caratterizzano le problematiche “comunità gruccia” di cui parla Bauman e i “microgruppi” di cui parla Lipovetsky6, in cui i rapporti interpersonali sono essenzialmente fugaci, pronti a disfarsi, mancando alla base una effettiva e duratura esperienza di quella “reciprocità” che, condizione necessaria, non è comunque da sola ancora sufficiente a dar luogo ad autentici vissuti di riconoscimento.
Tale ricerca di comunità è un sintomo che rivela il più generale bisogno di socialità perduta, per cui le suddette micro aggregazioni fungono da temporaneo “balsamo contro la solitudine […] grucce su cui appendere tutte le proprie paure e ansie vissute a livello individuale” e da superare attraverso “rituali esorcisti in compagnia di altri individui afflitti dalle medesime ansie e paure”7.
La condizione di reciproca estraneità che caratterizza l’individualizzazione postmoderna, la solitudine e il sempre più conclamato disorientamento, induce la ricerca, a qualsiasi costo, di occasioni atte a esorcizzare l’insecuritas esistenziale di una quotidianità di relazioni insignificanti, vuota di futuro. Occasioni reperibili, appunto, in quelle associazioni in cui sperimentare forme di scambio-incontro che si costituiscono e disfano continuamente perchè, il più delle volte, basate su esigenze solo funzionali. E così, gli individui si spostano da un gruppo all’altro per riaggregarsi secondo le traiettorie degli sciami che si muovono “spinti da cause effimere”, legati da “solidarietà puramente meccanica”, indifferenti a relazioni di autentica cooperazione8.
Si procede a vista, in assenza di senso. Anche la tolleranza, consistente nel lasciare che gli altri realizzino il proprio interesse o il proprio bene, “più che un principio dell’agire è un modo per non agire a favore degli altri lasciando che se la sbrighino per conto loro là dove […], dal punto di vista di un diverso principio morale, si tratterebbe, invece, di agire, attivandosi a loro vantaggio”9.
In tal senso, sembra esserci poca differenza tra tolleranza e indifferenza. Tuttavia, il problema che ci pare essere più pressante è che l’indifferenza del singolo nei riguardi della precarietà e sofferenza dell’altro, è evoluta in indifferenza istituzionalizzata che si esprime attraverso il venir meno delle garanzie del welfare da parte dello stato nei confronti delle fasce sociali deboli e vulnerabili, nei confronti di quei cittadini ritenuti “superflui” perché improduttivi se visti luce di una logica economicistica, per di più colpevolizzati perché non consumatori e, peraltro, indotti a introiettare le responsabilità del loro stato di precarietà.
In tal modo i poveri assurgono allo status di soggetti-di-non-diritto, soggetti da rendere invisibili, da sospingere e confinare nelle aree estreme della marginalità, nelle periferie delle città e, soprattutto, da rimuovere dalla propria coscienza personale, culturale e sociale.

3. Responsabilità e autoeducazione. Il doppio legame pedagogia-politica

In questa epoca “delle passioni tristi”, che si muove contraddittoriamente tra stupefacenti innovazioni tecnologiche, catastrofi ecologiche e conflitti inimmaginabili, tra esperienze alternative di ritorno al valore del “dono” e dello scambio (secondo la tradizione propria delle culture mediterranee di cui parla Mauss10) e crescita di povertà e di distanza; tra il diffondersi di nuovi modelli di sviluppo ispirati a inedite logiche dell’abitare e comportamenti predatori delle risorse umane, sociali e ambientali; tra creative sperimentazioni collettive di originali forme di fare politica e strategie di massificazione esistenziale, quale contributo possono offrire la riflessione e l’agire pedagogico? Quale strategia attivare per sottrarre le parole pedagogiche al rischio di insignificanza cui le espone la seduttività della sola retorica, la pratica della inconcludente chiacchiera?
Se l’educazione-istruzione-formazione non può da sola avere la pretesa di operare istantanee riorganizzazioni e trasformazioni dei modi di essere e di relazionarsi dell’uomo e del mondo, dell’uomo nel mondo, è pur vero che a essa è affidato il cambiamento necessario e possibile in direzione di una cultura della collaborazione, di una società dell’inclusione e dell’integrazione attiva delle differenze, considerando il doppio legame che c’è tra azione pedagogica e azione politica. E, questo, perché la scuola se, da una parte, è quello spazio sociale in cui refluiscono decisioni politiche altrove elaborate (spesso mal elaborate) è, però, essa stessa spazio di elaborazione e di prima rivendicazione di bisogni personali e sociali da sottoporre all’attenzione dei decisori pubblici.
L’impegno pedagogico – di una pedagogia capace di dire no alle ineguaglianze, alle discriminazioni, alle intolleranze, alle miserie culturali, alle deboli alfabetizzazioni, alla colpevole dispersione di intelligenze e creatività – è allora quello di rilanciare e riconsiderare le ineludibili finalità di un’educazione ricca di conoscenze e saperi scientifici e artistici, attraverso cui realizzare quell’“assoluto pedagogico” che Laporta indicava nella costruzione della libertà11. Una libertà intesa non tanto come punto di arrivo ma, piuttosto, come permanente processo di liberazione del potenziale creativo e riflessivo che è a base dei processi di autodeterminazione. E, dunque, anche liberazione da pregiudizi sociali e culturali e da egoismi individualistici che, al fine, si rivelano soffocanti i valori demonici di ogni singolo io.
Tutto ciò, è evidente, rilancia parole come democrazia e partecipazione diretta alla vita della polis, riallacciando legami di socialità in grado di riportare ciascuno nell’agorà per pensare-parlare insieme per riuscire a trovare una via per affrontare la complessità di una realtà che rischia, oggi più che mai, la disgregazione.
Ma questo non significa altro che garantire a tutti la possibilità di poter scegliere di essere uomini e donne responsabili. È necessario, in altre parole, una educazione che metta tutti nella condizione di essere responsabili, ossia di “scegliere la scelta”. Solo così, infatti, la responsabilità diviene tratto costitutivo dell’essere soggetto-persona autonomo. Autonomia, responsabilità, scelta, infatti, non sono possibili con l’attestarsi del singolo come “al di fuori” da un mondo che è complessa rete di legami biologici, antropologici e sociali.
Educare l’umanità dell’uomo, promuoverla, significa sostenere il soggetto nel realizzarsi – a realizzare la sua felicità e la sua legittima aspirazione al benessere – “assieme” agli altri che con lui condividono luoghi e cornici di vita. Si tratta di uno stare-insieme che, solo quando sia realizzabile da tutti, supera la dimensione funzionale e strumentale per qualificarsi eticamente nella forma di gruppi-comunità intra- e inter-specifici, recuperando l’umanesimo nella sua versione naturalistica, aperta anche all’alterità più radicale, l’alterità della natura non umana.
Obiettivo ineludibile di una pedagogia attenta a non perdere contatto con la realtà contemporanea diventa, dunque, progettare e realizzare percorsi di formazioni per cittadini che sappiano poter scegliere per sé, tenendo conto degli altri, in vista di un noi comune che, necessariamente, comprende l’intero sistema vivente e non-vivente, mondo fisico e naturale: acqua, terra, aria, piante, animali; mondo umano, simbolico e relazionale: musiche, scritture, architetture, saperi scientifici e artistici, letterari e filosofici.
Un Io pieno di altri, un Noi, a cui è affidata la responsabilità di sventare il rischio di uno sviluppo pericolosamente disumano e distruttivo. Capace, invece, di orientare il proprio potenziale di autodeterminazione in direzione autoeducativa, con ciò sostenendo percorsi di sviluppo personale e sociale evolutivamente aperti e creativi, costantemente sottoposti al vaglio di una ragione problematica e plurale.

1 Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affetti, Trad it. Laterza, Roma-Bari 2006, p. 81
2 F. Semerari, Indifferenza postmoderna, Guerini e Associati, Milano 2009, p. 21.
3 Ivi, p. 28.
4 Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 170.
5 M. Maffellosi, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nella società postmoderna, Guerini associati, Milano 2004, p. 122.
6 G. Lipovetsky, L’era del vuoto. Saggi sull'individualismo contemporaneo, Luni, Milano 1995.
7 Z. Bauman, Voglia di comunità, laterza, Roma-Bari 2001, p. 17.
8 Cfr. Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erikson, Trento 2007.
9 F. Semerari, cit., p. 74.
10 M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002.
11 R. Laporta, L’assoluto pedagogico. Saggio sulla libertà in educazione, La Nuova Italia, Firenze 1996.